Verso una Chiesa sorella: intervista a S.E. Mons. Farci

Verso una Chiesa sorella: intervista a S.E. Mons. Farci

Verso una Chiesa sorella: intervista a S.E. Mons. Farci

A pochi giorni dalla sua ordinazione episcopale, che avrà luogo domenica 9 febbraio alle 16, nella suggestiva cornice della basilica di Sant’Elena a Quartu, abbiamo rivolto alcune domande a S.E Mons. Mario Farci.

Che ricordi conserva degli anni di discernimento, studio e formazione trascorsi nel nostro Seminario Arcivescovile? Del biennio 1996  – 1998 a contatto con i giovani seminaristi in qualità di  Direttore Spirituale?

Sono entrato in seminario a poco più di tredici anni, nel 1980. Da tempo ero attratto dalla vita della Chiesa e dei presbiteri ma avevo preferito frequentare la scuola media nella mia città. Facevo parte di un nutrito gruppo di chierichetti che, tra l’altro, aveva una nutrita squadra di calcio di tutto rispetto. Erano altri tempi ed era naturale che qualcuno di questi facesse un’esperienza in seminario. Direi che i primi anni di seminario, il ginnasio e il liceo, sono stati i più importanti. Poi ho proseguito giorno per giorno fino al seminario maggiore, dove ho sperimentato la passione per la teologia che mi ha permesso di comprendere la fede in modo nuovo e più profondo.

Una volta ordinato prete sono stato anche padre spirituale nel seminario minore per due anni. Un’esperienza ristretta che mi vedeva soprattutto impegnato nel consolare i ragazzi che avevano nostalgia delle loro famiglie e delle loro case.

Dal 1999 è impegnato come  Cappellano presso la casa di cura S. Antonio in Cagliari. Come il rapporto con la sofferenza e la vita degli altri può continuare a formare un presbitero? Cosa porta via di prezioso dopo 25 anni?

Arrivai ad essere cappellano ospedaliero in modo rocambolesco. Inizialmente ero stato nominato parroco ma, per difficoltà legate al mio predecessore, mi proposero di andare alla casa di cura S. Antonio, dove sono rimasto per più di 25 anni.

Oggi dico che è stata una esperienza bellissima. Anzitutto nel contatto col personale sanitario, persone che lavorano seriamente, sperimentano la durezza del lavoro ma ogni giorno si adoperano per il bene di chi soffre e poi, l’esperienza più bella, con i malati che ti insegnano a vivere. Mi porto dietro tante loro sofferenze e, soprattutto, tanti loro insegnamenti. Ho sempre voluto mantenere questo incarico, anche da Preside. Quando ero preoccupato o in tensione per qualcosa fuggivo in ospedale in modo che tutto venisse ricondotto nei giusti termini e oggi vedo che questi 25 anni sono proprio volati.

Cosa direbbe a un giovane che le confidasse il desiderio di diventare sacerdote?

A questo giovane direi di fare tutto con calma e senza affanni, di cercare di essere un ragazzo normale, di fare un’esperienza di Chiesa. Gli ripeterei la raccomandazione che in questi giorni, molto frequentemente, mi stanno facendo: «Non montarti la testa!». Gli direi che è necessario formarsi bene, il tempo della formazione non è tempo perso: tutto il contrario!

Inoltre, all’interno di questa formazione, forse per deformazione professionale, cercherei di fargli capire che la formazione teologica è indispensabile, che lo studio non è un optional e serve per aprirci la testa e farci interpretare meglio la realtà. Per un presbitero, soprattutto per un parroco, oggi e domani sarà sempre indispensabile.

Cosa le mancherà maggiormente di questa chiesa diocesana che ha servito per quasi 34 anni?

A Cagliari sono cresciuto, mi sono “fatto le ossa”. Direi che la Chiesa di Cagliari è stato il mio habitat naturale. Credo che mi mancherà un po’ tutto l’ambiente, però … Iglesias non è da meno. Le dimensioni sono, certo, più contenute ma credo possa essere un vantaggio. Ho l’impressione che ciò favorisca non poco la familiarità tra presbiteri e, mi auguro, con il Vescovo. Tengo a ringraziare la chiesa di Cagliari per tutto quanto mi ha dato. Mi sento inviato da questa comunità verso una chiesa sorella ma, in fondo, … la famiglia è la stessa!

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Voci dal Convegno Nazionale Vocazioni

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Anche quest’anno si è svolto a Roma, dal 3 al 5 gennaio, il Convegno nazionale vocazioni, che ha riunito oltre 350 partecipanti, tra responsabili diocesani delle Vocazioni, operatori pastorali, educatori, religiosi e giovani. Per la Sardegna hanno partecipato i delegati delle diocesi di Ales-Terralba, Alghero-Bosa, Cagliari, Oristano e Sassari. La tre-giorni è stata un momento di incontro, confronto e riflessione sulla progettazione di itinerari di pastorale giovanile vocazionale. Gli interventi del responsabile del Servizio nazionale per la pastorale giovanile, don Riccardo Pincerato, hanno ribadito la necessità di una sempre maggiore sinergia tra la pastorale giovanile e quella vocazionale. Il Convegno ha proposto un ricco programma. Dopo una visita virtuale alla Sagrada Familia, i relatori hanno affrontato alcuni temi estremamente attuali: la complessità della vita odierna, la progettazione di itinerari di pastorale giovanile e vocazionale, il mondo digitale come “luogo” da abitare con sapienza. Nel corso del Convegno si è dato spazio anche ad alcune esperienze di accompagnamento vocazionale: brevi cortometraggi hanno offerto ai partecipanti vivaci testimonianze di ragazzi e giovani, provenienti da varie parti d’Italia, che hanno intrapreso o accompagnano cammini vocazionali. Non poteva mancare, nell’Anno Giubilare, la possibilità di vivere il pellegrinaggio alla Porta Santa; abbiamo condiviso momenti di preghiera e meditazione, e poi attraversato la Porta della basilica di San Pietro. Il Convegno Nazionale si è chiuso con una rinnovata consapevolezza e determinazione: la Chiesa italiana si impegna a rispondere alle sfide di oggi, che la Pastorale Giovanile può intercettare, promuovendo una visione che valorizzi l’umanità dei nostri ragazzi.

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Pubblicata la nuova edizione della Ratio nationalis dei Seminari

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A partire da oggi, 9 gennaio, entra in vigore, ad experimentum per tre anni, il documento “La formazione dei presbiteri nelle Chiese in Italia. Orientamenti e norme per i seminari” (quarta edizione), approvato dalla 78a Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, svoltasi ad Assisi dal 13 al 16 novembre 2023. Il testo, che ha ricevuto l’approvazione della Santa Sede tramite un decreto del Dicastero per il Clero, delinea un percorso formativo per il presbiterato diviso in due fasi: la prima, di carattere iniziatico, si concentra sulla crescita interiore attraverso un forte rapporto educativo con i formatori, puntando su una vita spirituale solida, l’impegno nello studio e nella preghiera, una vita comunitaria intensa e la conoscenza di sé. La seconda fase si orienta verso la scoperta del Popolo di Dio, con un maggiore coinvolgimento della comunità cristiana nella formazione dei candidati al presbiterato.

Il primo capitolo affronta la questione di quale tipo di prete formare e per quale Chiesa, considerando la formazione permanente come elemento centrale per il presbitero italiano di oggi, con particolare attenzione alle dimensioni missionarie e di comunione come pilastri fondamentali del percorso formativo. Nel secondo capitolo si sottolinea che la pastorale vocazionale è un impegno di tutta la comunità ecclesiale, specificando le modalità di accompagnamento vocazionale per i giovani, basato su una solida formazione spirituale. Si conferma l’importanza del Seminario Minore, si propongono le comunità semiresidenziali come nuove forme di accompagnamento e si affronta anche il tema delle vocazioni adulte.

Il terzo capitolo descrive le quattro tappe dell’itinerario formativo delineato dalla Ratio fundamentalis: propedeutica (un anno), discepolare (due anni), configuratrice (quattro anni) e di sintesi vocazionale (un anno). Il modello educativo proposto privilegia l’investimento sugli obiettivi formativi, senza rigidità nei tempi, favorendo la personalizzazione del percorso e evitando che le tappe diventino semplici formalismi legati agli anni degli studi teologici.

Nel quarto capitolo si esplora la formazione nel Seminario Maggiore, che viene presentata come unica, integrale, comunitaria e missionaria, andando oltre l’apprendimento di contenuti teorici o il rispetto delle regole morali e disciplinari, per focalizzarsi sulle motivazioni e convinzioni personali, ossia sulla formazione della coscienza. Due paragrafi trattano la protezione dei minori e delle persone vulnerabili, con l’indicazione per i formatori di utilizzare la pubblicazione “La formazione iniziale in tempo di abusi” come sussidio per i percorsi educativi.

Infine, il quinto capitolo affronta il tema degli agenti della formazione, raccogliendo la proposta emersa dal Cammino sinodale di ampliare la condivisione del processo formativo dei seminaristi, coinvolgendo l’intera comunità ecclesiale e stimolando forme creative di collaborazione, con particolare attenzione alla figura femminile.

ORIENTAMENTI E NORME PER I SEMINARI (4ª EDIZIONE)

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La Dichiarazione Dignitas infinita circa la dignità umana/4

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Proseguiamo con l’ultimo della serie dei contributi (qui, qui e qui i precedenti) che illustrano i principali punti chiave della Dichiarazione Dignitas infinita del Dicastero per la Dottrina della Fede.

La dignità come fondamento dei diritti e dei doveri

Il terzo capitolo propone una riflessione sul concetto di dignità, sulla struttura relazionale della persona e sulla sua liberazione dai condizionamenti morali e sociali.

Concetto di dignità

Alcune formulazioni linguistiche insistono nel parlare di “dignità personale” (i relativi diritti “della persona” e non di “dignità della persona”, intendendo come «persona solo “un essere capace di ragionare”» (DI 24). In questo modo la dignità e i diritti deriverebbero dalla capacità di conoscenza e libertà, ovvero godrebbero di dignità e di diritti solo gli esseri umani che presentano tali capacità. Il bambino ancora nato, l’anziano non autosufficiente, il disabile mentale non avrebbero dignità. Ma «la Chiesa, al contrario, insiste sul fatto che la dignità di ogni persona umana, proprio perché intrinseca, rimane “al di là di ogni circostanza”, ed il suo riconoscimento non può assolutamente dipendere dal giudizio sule capacità di intendere e di agire liberamente delle persone» (DI 24).

Il concetto di dignità viene talvolta usato come giustificazione di nuovi diritti, spesso in contrasto anche con il diritto fondamentale alla vita. La radice di queste distorsioni è la comprensione della libertà come isolata ed individualistica: libertà così è «garantire la capacità di esprimere e di realizzare ogni preferenza individuale o desiderio soggettivo» (DI 25). Questo però contraddice l’essenza stessa della dignità, perché essa «non può essere basata su standard meramente individuale né identificata con il solo benessere psicofisico dell’individuo» (DI 25).

Struttura relazionale della persona

La comprensione corretta della libertà, che sfocia in una giusta concezione della dignità, passa necessariamente attraverso il riconoscimento che la persona ha un carattere relazionale: solo con la consapevolezza che l’essere umano è costitutivamente essere-in-relazione si può evitare di «limitare la dignità umana alla capacità di decidere discrezionalmente di sé e del proprio destino, indipendentemente da quello degli altri, senza tener presente l’appartenenza alla comunità umana» (DI 26). Questa costitutiva apertura all’altro, da cui deriva anche «la capacità, insita nella stessa natura umana, di assumersi degli obblighi verso gli altri» (DI 27), rimarca la prospettiva comunitaria in cui si inscrive la dignità di ciascuno: il rispetto della dignità richiede necessariamente che «ci si prenda cura gli uni degli altri» (DI 26).

La Dichiarazione poi afferma una differenza tra l’essere umano e gli altri esseri viventi: solo in relazione all’essere umano si parla di “dignità”, mentre per il resto del creato si parla di “bontà creaturale”. Quindi esiste una differenza di ordine ontologico tra l’essere umano e un qualunque altro essere vivente, differenza che è espressa anche attraverso il concetto di dignità. Questa sottolineatura sembrerebbe essere una risposta a certe istanze della cultura contemporanea che – sulla base di una certa lettura dei risultati di ricerche in vari campi del sapere (antropologia culturale, paleontologia, etnologia…) – affermano una non netta separazione tra mondo umano e mondo animale e vegetale (arrivando anche a sostenere una non diversità tra realtà organica e non organica). Se da un certo punto di vista, l’essere umano è diverso dal resto del creato, d’altra parte la giusta relazione che tra i due deve instaurarsi è espressa dall’antropocentrismo situato: l’essere umano è compreso in relazione alle altre creature e all’ambiente, verso i quali è chiamato ad avere un rapporto di cura.

Liberazione dai condizionamenti morali e sociali

Ogni persona vive in uno spazio e un tempo determinati, immersa in un contesto storico fatto di relazioni e di condizionamenti di varia natura. Se è vero che, in virtù del battesimo, ognuno è capace di rimanere in una condizione veramente libera, non si può negare che la realtà circostante influenzi la libertà: «non sarebbe, inoltre, realistico affermare una libertà astratta, esente da ogni condizionamento, contesto o limite» (DI 31), sia esso di ordine economico, sociale, giuridico, politico e culturale. La libertà pertanto è sempre una libertà situata che va liberata (cfr. Gal 5,1): se «la libertà è frequentemente oscurata da tanti condizionamenti psicologici, storici, sociali, educativi, culturali», allora essa «ha sempre bisogno di essere “liberata”» (DI 31).

Davide Ambu

 

 

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La Dichiarazione Dignitas infinita circa la dignità umana/4

La Dichiarazione Dignitas infinita circa la dignità umana/3

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Proseguiamo con la serie dei contributi (qui e qui i precedenti) che illustrano i principali punti chiave della Dichiarazione Dignitas infinita del Dicastero per la Dottrina della Fede.

Motivazioni teologiche circa la dignità umana

Il secondo capitolo, dai tratti più marcatamente teologici, riguarda le motivazioni per cui «la Chiesa proclama l’uguale dignità di tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro condizione di vita o dalle loro qualità» (DI 17). Si tratta in sostanza di tre ragioni, legate a tre fondamentali realtà della fede cristiana: l’uomo creato a immagine di Dio (creazione), l’uomo pienamente rivelato da Gesù Cristo (incarnazione) e l’uomo chiamato alla comunione con Dio (resurrezione).

L’uomo creato a immagine di Dio

La Rivelazione mostra il legame fondativo tra l’essere umano e Dio: il racconto fondativo di Gen 1 stabilisce un rapporto originario e originante tra i Creatore e la creatura, plasmata dalla terra a immagine somigliante divina. È per questa provenienza, testimoniata dalla presenza dell’impronta di Dio su ogni essere umano (Gen 1,26) che la creazione getta luce sulla dignità umana: Dio ha creato l’uomo affinché lo conoscesse, lo amasse e stabilisse rapporti di fraternità e pace con gli altri esseri creati. Stando fedeli alla mentalità ebraica che sta dietro il racconto di creazione, l’essere umano è considerato come un’unità organica (nel mondo ebraico non erano presenti le distinzione tra corpo e anima). Così, se la creatura partecipa dell’immagine di Dio in ogni fibra e dimensione del suo essere, «la dignità si riferisce non solo all’anima, ma alla persona come unità inscindibile, e dunque inerisce anche al suo corpo» (DI 18).

Si può notare come il testo proponga una visione olistica dell’uomo, tenendo insieme le due dimensioni di anima e corpo di matrice greca. Avendo citato Gen 1,26 sarebbe però stato più opportuno insistere su una terminologia biblica più corrispondente alla cultura in cui il racconto fondativo della creazione dell’essere umano ha avuto origine. Inoltre, fondare teologicamente la dignità sulla creazione garantisce che essa sia proprietà costitutiva di ogni essere umano anche non cristiano.

L’uomo pienamente rivelato da Gesù Cristo

Oltre ad essere stato creato a immagine e somiglianza di Dio, l’essere umano è creato a immagine del Figlio, colui che del Padre è «immagine del Dio invisibile [εἰκὼν τοῦ θεοῦ τοῦ ἀοράτου]» (Col 1,15; cfr 2Cor 4,4). Con l’assunzione della carne, il Verbo di Dio «ha confermato la dignità del corpo e dell’anima costitutivi dell’essere umano» (Dignitas personæ, 7), poiché in virtù dell’incarnazione Cristo si è legato in qualche modo ad ogni uomo (GS 22). Da questo discende che «ogni essere umano possiede una dignità inestimabile, per il solo fatto di appartenere alla stessa comunità umana» (DI 19). Inoltre, non solo per la sua natura teandrica (umano-divina) ma anche per le sue opere (che l’hanno espressa), Cristo ha rivelato pienamente la dignità di ogni persona: con l’annuncio dell’appartenenza del Regno ai poveri e agli uomini, le guarigioni dalle malattie fisiche e spirituali egli ha rivelato che «l’essere umano è tanto più “degno” di rispetto e di amore quanto più è debole, misero e sofferente» (DI 19).

L’uomo destinato alla comunione con Dio

L’essere umano è destinato alla comunione con Dio: scopo autentico della sua esistenza è l’unione con il suo Creatore, che lo ha da sempre chiamato all’eterna felicità dello stare con lui. In altri termini, la resurrezione di Cristo illumina ulteriormente la dignità della persona. Infatti la dignità dell’essere umano «non è legata solo alle sue origini, al suo venire da Dio, ma anche al suo fine, al suo destino di comunione con Dio» (Evangelium vitæ, 38).

A questa chiamata, l’uomo può corrispondere con la propria libera decisione in una dinamica chiarita dalla distinzione tra immagine e somiglianza di Genesi. Se da una parte l’immagine di Dio non può essere cancellata e perciò la dignità non può mai essere persa, dall’altra la somiglianza a cui ciascuno è chiamato può essere avvicinata se ci si orienta verso il bene, cercando di vivere all’altezza della propria dignità. Così è possibile comprendere «in che senso il peccato possa ferire ed offuscare la dignità umana, come atto contrario ad essa, ma, nello stesso tempo, che esso non può mai cancellare il fatto che l’essere umano sia stato creato ad immagine di Dio» (DI 22).

Davide Ambu

 

 

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